mercoledì 28 settembre 2016

LAVORISMO E CONSERVATORISMO DI SINISTRA.



LAVORISMO E CONSERVATORISMO DI SINISTRA. 

A
Il Partito Comunista, che dominò incontrastato culturalmente e praticamente questo lungo periodo di rivendicazioni, e il comunismo marxista leninista, che lo dominò in seconda battuta, erano certamente  interessati ai diritti sociali. Ma questi diritti erano solo un mezzo per un fine molto più totalizzante che dei meri diritti. Il fine era l’abolizione delle classi, delle differenze sociali ed umane, le quali erano il riflesso di quelle economiche, e non un dato naturale e irrimediabile di ogni società. La Democrazia Progressiva fu l’ideologia che, consapevolmente o no, guidò quelle rivendicazioni. Il tale aumento , la tale pausa erano solo piccoli tasselli di un mosaico la cui bellezza si sarebbe rivelata solo alla fine. La rivoluzione bolscevica veniva depotenziata e diluita in un lungo cammino che avrebbe portato all’instaurazione del socialismo.
Quando, nei ’70, e meglio negli ’80, ci si accorse della fallacia di questo schema, non si poté  far nulla per cambiarlo veramente. Nonostante tutti gli sforzi di Berlinguer, dall’Eurocomunismo al Compromesso storico, fino alla parziale presa di distanza dall’URSS, i semi della Democrazia Progressiva si erano sedimentati nella cultura popolare della sinistra. La quale vedeva, e in parte vede anche adesso, i diritti sociali come le porzioni di un destino sociale che si compie. Ma così non è. Così non può essere. Così non deve essere. In una Repubblica democratica costituzionale, i diritti sociali sono fini in sé. Essi non differiscono, per questo solo aspetto, dai diritti liberali. I diritti liberali sono auto finalistici, e antiutopistici: Non vi è un futuro in cui la libertà si realizzerà in qualche modo; essi devono venir applicati nel tenpo corrente, e valere senza rispetto delle condizioni sociali che causano. I diritti liberali sono perciò anche astorici. Non perché sono fuori da una storia particolare, un insieme di contingenze che li ha fatti maturare in una data costituzione giuridica. Sono astorici nel senso che fungono da limite del potere dello Stato, e forniscono dei poteri ad ogni singolo cittadino indipendentemente dal contesto storico in cui a questi capita di vivere. I diritti sociali sono altrettanto auto finalistici, anche se non possono prescindere del tutto dalle contingenze storiche. Il diritto a essere curati di ieri comportava tutta una mobilitazione di risorse che non è la stessa di oggi. Il costi della sanità sono crescenti, come crescente però è l’efficacia delle cure e l’accuratezza di queste. Perciò il  diritto sociale ad essere curati acquista nel tempo aspetti sempre diversi. Ma tali aspetti, di nuovo, non sono legati ad un destino, ma ad una serie di contingenze individuali, che nascono e muoiono in un tempo limitato potendo lasciare delle tracce di sé, come no.  
Se il destino è segnato, il debito pubblico non può essere un problema. Esso svanirà, perché svanirà il privato con il quale quel debito pubblico si contrae. Così, mentre Paesi come la Germania attendevano al loro debito pubblico, e proprio grazie alla Socialdemocrazia, cioè alla sinistra, l’Italia allungava il vino con l’acqua ad ogni pasto, e continuava nei suoi bagordi.
È chiaro che il debito pubblico è causato da un insieme enorme di fattori. Inoltre la DC e gli altri partiti della prima repubblica non furono meno voraci nel depredare le risorse pubbliche. Ma qui parliamo della sinistra perché è la parte politica che ci sta a cuore.

B

La sinistra non marxista che a ridosso della fine della seconda guerra mondiale ebbe un ruolo nella ricostituzione del nostro Paese non riuscì mai a creare delle organizzazioni politiche di massa in cui i lavoratori potessero rispecchiarsi. D’altronde le idee della sinistra liberal socialista, se da una parte divergevano completamente sull’idea di democrazia e di regime politico migliore per salvaguardare i diritti rispetto al comunismo, dall’altra condivisero col socialismo, se non l’idea di collettivizzazione del’economia, senz’altro la centralità del lavoro e della fabbrica nella costruzione di un sistema di diritti sociali, e come sistema di vita in generale. Non poteva certo essere il contrario, visto che il taylorismo aveva meno di 50 anni, ed era nel suo fulgore. L’Italia dal canto suo incubava negli anni 50 il boom degli anni seguenti, incentrato proprio sulla fabbrica, sulle grandi aziende, sulle auto e sull’acciaio. Il lavoratore era allora il soggetto di un democratismo direttista, che si sviluppava nei consigli di fabbrica. Questa democratizzazione, nel caso della sinistra comunista, della fabbrica era intesa in senso storicistico come uno dei passi verso la completa presa del potere del lavoro sulla proprietà. Nel caso della sinistra non comunista invece, ciò veniva interpretato come una umanizzazione del lavoro capitalista, nel quale l’autonomia del lavoratore veniva esaltata.
In entrambe i casi, malgrado le enormi differenze, la fede nella fabbrica e nel lavorismo, specie operaista, segnarono le ideologie.

C
Dagli anni ’70 in poi iniziò la “grande frantumazione”. Frantumazione prima di tutto dei centri di potere mondiale; frantumazione dei poli produttivi, della geografia merceologica del mondo. La fabbrica rimase e rimane, nella sua struttura di fondo,  fordista, anche se spesso è ad alta automazione; ma le fabbriche si moltiplicano, e molte chiudono: vengono de localizzate, sono spazzate via dalla concorrenza prima delle tigri asiatiche, poi della Cina e infine di tutto l’estremo oriente, dall’India, Dal Brasile e dalla Russia.
Ma l’intera sinistra culturale, sia di matrice comunista che azionista, reagì alla grande frantumazione in maniera ostile. Per la sinistra d’origine comunista la perdita dei diritti sociali che si paventava, esclusivamente legati al lavoro, era dovuta all’ideologia liberista, o meglio, neoliberista, che fu il nome che questa sinistra a quello che fino a una decina di anni prima si sarebbe chiamato semplicemente Capitalismo. Ma anche la sinistra non marxista reagì in modo simile. Vi fu una opposizione tra neoliberismo e liberalismo sociale, o democratico. In tutti e due i casi la reazione agli eventi doveva essere di resistenza e di chiusura.

D
La reazione fu dunque simile. Al ridimensionamento delle fabbriche e alla crisi del lavoro si rispose con la Fabbrica, e con il Lavoro del Lavorismo. La Grande Frantumazione avvenne, in Italia, anche tra sinistra culturale e sinistra di governo. Mentre la seconda faceva tentativi blairiani di riforma del lavoro e dei diritti sociali, la prima continuava coi suoi dogmi lavoristi, sostenendo tutti i “contro” possibili presenti sul mercato politico. Ma fallirono entrambe. Le riforme furono parziali, e finirono per peggiorare la situazione sociale dei più deboli, i giovani in primis; mentre la sinistra culturale non riuscì mai a trovare una formula politica tale da far emergere  un programma politico verosimile.

E
Intanto le riforme si bloccano, si fermano a quelle sul lavoro, sulle pensioni, e, troppe, sulla scuola. Ma ciò che la sinistra di governo non fa, e tantomeno la destra, è l’aggressione del debito pubblico, la Grande Riforma. Esso, negli anni ’90 e primo 2000 non fa che aumentare. Poi la crisi economica, la crisi fiscale e di debito. La sinistra non ha elaborato nessuna strategia, nessuna ideologia. Essa si è semplicemente suicidata in favore di un centrismo troppo moderato e bigotto che fa a gara con la destra per mancanza di idee e conservatorismo su tutti i fronti.
F
Con la scomparsa della sinistra dalla scena della politica italiana, ( incarnata dal dal trio Renzi, Letta Alfano, come unici possibili futuri leader di praticamente tutto il panorama politico ) scompaiono anche i temi dei diritti sociali, sui quali non si discute più. Essi sono o dati per scontati nella loro essenza, oppure sono discussi in un ambito generico, in un polverone indistinto in cui perdono senso e valore. Mentre oggi più che mai bisognerebbe riflettere sulla natura ideologica e pratica dei diritti sociali. Di quanto questi siano legati a quelli politici e civili, e di come essi debbano essere mutati sia nella loro gestione che nella loro fruizione.

sabato 24 settembre 2016




FUNZIONE E FINALITÀ

Stati dell’azione
Affinché una serie di miei atti, di movimenti, divenga comprensibile - divenga cioè un’azione nel senso proprio -  bisogna che chi mi guardi afferri il senso di quegl’ atti. La serie di movimenti del mio braccio acquisisce la denominazione di azione se essa determina un cambiamento della realtà ambientale pensabile come voluto, da me ricercato, e procurato ad un fine precipuo, secondo un corso d’azioni spiegabile in qualche termine, cioè comprensibile, denso di significato.
 Tramite quel cambiamento nella realtà viene conseguito ciò che potremmo chiamare lo stato finale della mia azione.
Lo stato motivazionale è invece il punto di partenza dell’azione. Ciò che viene attivato o da imput percettivi o da imput interni, legati alle sensazioni che il mio stesso corpo mi procura.  La mia sete attiva il mio comportamento finalizzato di bere acqua. Stato motivazionale e stato finale non sono la medesima cosa, ma vertono sul medesimo oggetto. La mia sete, come sensazione, e conseguente desiderio di bere,  e la soddisfazione della sete vertono entrambe su SETE. Ma la mia sensazione di sete non è la soddisfazione della sete, così come entrambe non corrispondono a SETE. I due stati piuttosto sono delle declinazioni di SETE, il primo declina l’oggetto al modo ottativo, il secondo al modo indicativo. La sensazione di sete causa un desiderio di bere in modo tale che potrei esprimere verbalmente questo stato motivazionale con un’espressione del tipo “vorrei bere!”. Lo stato finale può essere espresso con le parole “sto bevendo!”.
 Lo Stato operativo è l’insieme di tutte quelle credenze che orientano ed emendano il corso dell’azione. Per es. il fatto di credere che l’acqua sia in cucina piuttosto che in sala modifica il tipo di comportamento che avrò, in caso abbia sete e voglia bere.

Scopi
 Lo scopo è lo stato di realtà, lo stato di cose (il mio bere effettivamente l’acqua)che la mia azione va a causare al fine di conseguire lo stato finale.
Lo scopo non è lo stato finale, ma solo ciò che permette di perseguire lo stato finale. Stato finale e Stato motivazionale vertono su un medesimo oggetto, cioè su quello che, tra poco, chiameremo il concetto dell’azione. Mentre però tra SM e SF vi è una identità d’oggetto, non così tra i due stati e lo Scopo.
Prendiamo un caso semplice: quando un killer professionista uccide un povero malcapitato non soddisfa il suo desiderio di uccidere, bensì quello di essere remunerato per l’omicidio. SM “desidero i soldi” e SF “soddisfo il mio desiderio di avere soldi” non vertono affatto sull’uccidere qualcuno, ma sul concetto SOLDI. Affinché vi sia azione, dunque, non è sufficiente che un corpo realizzi uno scopo, ma è necessario che esso realizzi uno stato finale. In realtà, quest’ultima è, come vedremo, una condizione necessaria ma non sufficiente affinché vi sia azione. Lo stato finale infatti verte su un oggetto, che è quello compreso dal concetto dell’azione, ed è a questo che bisogna riferirsi nel determinare le condizioni dell’azione.
Ma, che dire di quei comportamenti che davvero non sembrano avere alcun altro obbiettivo che il loro scopo pratico? Vi sono di certo numerose attività che non paiono aver alcun altro scopo che l’essere prodotte, come per esempio molti giochi. Se io gioco a calcio, non è per ottenere uno stato finale diverso da quello di giocare a calcio (almeno se lo faccio per divertimento).Tornando all’esempio del bere per sete,  vi è infatti una differenza evidente tra “bere un bicchier d’acqua” e “calmare la sete,”, ma che differenza c’è tra “giocare a calcio” come Scopo e “giocare a calcio” come SF? Si potrebbe dire che quando io gioco a calcio soddisfo il mio desiderio di giocare a calcio, e che dunque io, per accogliere nella mia intimità di soggetto questa soddisfazione devo rappresentarmela, devo cioè farne uno stato mentale. Ma, potrei dire, che questo altro non è che da intendersi che io mi rappresento meramente il mio gioco del calcio, in contraddizione con quanto detto prima, cioè che lo Stato Finale non verte sul medesimo oggetto dello scopo. È però d’altro canto evidente che se gioco a calcio (e non lo faccio per lavoro, o perché costretto ecc.) allora lo stato finale debba vertere in qualche modo sul gioco in sé.
Il problema qui è stabilire cosa si debba intendere con giocare al calcio. Il calcio è un gioco che ha delle regole, delle pratiche consolidate, ma che soprattutto esige da chi lo gioca una vasta gamma di movimenti tipici, di gesti, che chiamano in causa numerosi schemi senso motori e abilità. Se noi potessimo parcellizzare tutti questi movimenti ed elementi compositi, e disporli davanti a noi avremmo un repertorio finito di oggetti (quali movimenti, atteggiamenti, regole ecc.) che potrebbero definire il gioco del calcio. Ma nessuno di questi singoli movimenti,(e altri elementi) o anche coppie o triplette potrebbe in sé e per sé definire il gioco del calcio. È solo quando questi elementi vengono prodotti serialmente, in maniera competente e articolata, in modo da rivelare una certa tipicità dei gesti (come per es. non prendere il pallone con le mani) che avremmo a che fare con il gioco del calcio. È dunque questa complessa articolazione che rende delle sequenze di “nudi gesti” un gioco difficile che richiede grandi abilità atletiche.
In conseguenza di quanto appena detto, tornando all’esempio, potremmo dire che il gioco del calcio come Scopo (cioè come evento, come stato di cose reale) non è ciò che viene rappresentato effettivamente nello stato interno “sto giocando a calcio”. In realtà, se vogliamo rappresentarci il calcio come Scopo, dovremmo piuttosto riferirci a quella congerie di elementi, o meglio, a quel sottoinsieme di elementi, preso nell’insieme di tutti i movimenti possibili,  che vengono effettivamente messi in atto dal soggetto mentre gioca. Ma sarebbe davvero sensato, perciò,  sostenere che lo Stato finale dell’azione di giocare a calcio sia compiere un sottoinsieme di movimenti x nell’insieme y? Non è ciò che normalmente si intende con il giocare al calcio. In altre parole chi gioca al calcio non rappresenta, nel suo stato finale, lo Scopo, bensì una qualche forma concettuale del calcio, un insieme di elementi tenuti insieme da somiglianze, da affinità, da una fitta rete di reciproche implicazioni e da nessi di varia natura. Allo stesso modo, sarebbe poco plausibile sostenere che chi desidera giocare, in realtà desideri compiere una mera sequela di movimenti.
Dunque, Stato finale e Scopo differiscono non solo in alcuni casi evidenti (come quello dell’acqua o del killer), ma non sono mai la rappresentazione l’uno dell’altro. Lo Stato finale è cioè autonomo rispetto allo Scopo, anche se è lo scopo a realizzare lo stato finale.

Il concetto dell’azione
Lo stato finale verte su, o è rappresentazione di, un concetto,  non di un set di movimenti.  il concetto consiste in una serie di relazioni tra elementi eterogenei quali movimenti, rappresentazioni e schemi corporei. Tali elementi  sono sistematicamente riconoscibili come appartenenti ad un unico ambito oggettuale. Il concetto permette primariamente di riconoscere, anche implicitamente, e inconsapevolmente un certo numero di atti come riferiti ad un'unica attività.  Esso è composto da rappresentazioni consce e inconsce e da schemi motori. Lo stato finale e lo stato  motivazionale, dunque,  vertono sul medesimo concetto, che è IL CONCETTO DELL'AZIONE. Il CA è ciò che rende un set di atti atomici una azione. il Concetto dell’Azione è ciò che informa ogni elemento del flusso rappresentazionale di un sistema finalistico,  dagli stati motivazionali, a quelli operativi e finali, e da l'orientamento di fondo al corso dell'azione stessa
Non è sufficiente dunque, al fine di formare un'azione,  che un soggetto consegua un certo stato di cose, ma piuttosto che questo stato di cose sia determinato, nella sua forma concreta, almeno in via approssimativa, dal concetto che informa i suoi stati. Noi riconosciamo l'azione del bere poiché rinvenimento in quei gesti per lo meno una qualche vestigia dello stato finale della sedazione della sete, la quale verte sul CA SETE. Potremmo sbagliarci.  chi beve potrebbe farlo per un motivo diverso che sedare la sete. Ma allora rileveremo semplicemente il nostro errore interpretativo, non l'assenza di un concetto
Lo scopo, o stato del mondo, realizza lo stato finale, nel senso che lo causa. Se non bevo non posso trasformare il mio stato motivazionale in finale(a cui, in questo caso, si accompagna anche la sensazione viscerale della soddisfazione della sete). Ma il CA in sé non è causato dallo scopo. Esso è rappresentato nel soggetto. Poiché il mio CA è già in me, allora io perseguirò il corso di azioni x invece che y, ma sarà x invece che y poi a causare lo stato finale di quel CA. Se devo costruire qualcosa, scelgo io gli utensili adatti, e saranno questi poi a dare vita a quel qualcosa.
Affinché vi sia azione, cioè serie di atti finalizzati,  vi deve essere un concetto dell'azione rinvenibile in quegl' atti.




Fine desiderio e senso
Lo stato finale di un’azione non è il suo senso. Il senso di un’azione è connesso a tutti quegl’aspetti dell’azione che ci lasciano inferire che essa non è formata da un insieme casuale di gesti (non è assurda), ma che invece essa è dotata di un ordine e una coordinazione interna.  Il nucleo gestuale di essa deve poter essere compreso, o meglio, spiegato per tramite di una verbalizzazione, di una descrizione, sottoponibile ad un’opera di verificazione.
Quale sarà il senso dell’azione di qualcuno che si alza, prende dell’acqua, e beve? Avere sete? Sedare la sete? In altre parole, qual è il corno dell’azione che devo prendere per spiegare un’azione? Lo stato motivazionale (si è alzato perché aveva sete), o quello finale (si è alzato al fine di bere, e sedare la sete)? Che ragione ho io di ritenere di dover spiegare quel comportamento con l desiderio di bere piuttosto che con la finalità di bere? Entrambi gli aspetti, in realtà, forniscono una ragione di quello che stiamo vedendo, e ci rendono edotti sulla coordinazione interna, sull’orientamento dell’azione. Ma tali stai acquisiscono i loro caratteri specifici alla luce di un concetto specifico. Non v’è uno stato motivazionale “puro”, del tutto formale, uno schema buono per tutte le stagioni che i concetti riempiono di un significato individuale, finito. Voler calmare la sete non è la stessa cosa di voler fare l’astronauta, o voler vincere alla lotteria. Tutti questi stati motivazionali possono fungere da cardine di un’azione, ma mentre nel caso della sete il desiderio, essendo derivato da una sensazione ben precisa, è facilmente scrutabile, il  desiderio di fare l’astronauta ha una origine molto più oscura. Da quali sensazioni o imput deriva “’l’eccitazione del nostro snc” che ci porta alla coscienza il desiderio di diventare astronauta? È difficile non rischiare l’ipostasi, e inventarsi un mondo dei desideri, il cui formarsi è totalmente indipendente dai contenuti.   Vi è invece un processo di concettualizzazione, nel senso espresso poc’anzi (insomma una concettualizzazione solo parzialmente intellettualistica) che è coevo al flusso comportamentale con cui l’essere umano (ma anche animale) si relaziona col mondo. Il processo di concettualizzazione permette di interpretare il corso d’azioni secondo le pietre angolari del desiderio e della finalità, perché conferisce coordinatezza al flusso comportamentale. Ma è appunto tale coordinatezza che rende possibile per noi prefgurare dei fini e dei desideri nelle altre persone
Il senso dell’azione è perciò rinvenibile anche negli stati motivazionali e in quelli finali, ma solo nella misura in cui vi è un processo di concettualizzazione, attribuibile al soggetto, che ci permette di discernere gli accadimenti del mondo dai comportamenti di quello, che ci permette cioè di osservare dei nessi, delle regolarità (con dei limiti, come vedremo) nel comportamento del soggetto, che gli oggetti inanimati non mostrano di avere.




Definalizzazione dei comportamenti
Se dico che Tizio si alza e beve dell’acqua, posso spiegare la sua azione dicendo che Tizio ha sete, o che Tizio ha sedato la sua sete. Ma posso spiegarmi meglio se dico che Tizio ha svolto un SETE comportamento. Se mi sbaglio, e capisco invece che Tizio ha bevuto solo per schiarirsi la voce, allora dovrò dire che egli ha svolto un RAUCEDINE comportamento. In questo modo i sensi delle azioni vengono sia  definalizzati che demotivazionalizzati. Saranno altresì i fini e le motivazioni a fornire delle chiavi interpretative del concetto. Ma tali chiavi interpretative sono valide nella misura in cui chiarificano ed esplicitano il concetto dell’azione in modo tale da poterlo rendere adatto ad una verbalizzazione passibile di verificazione.



Organi e concetto dell’azione
Vi possono essere atti che realizzano scopi, cioè particolari stati del mondo, senza che vi sia finalità.   Vi sono infatti entità che, pur  essendo molto differenti  dai soggetti, sembrano tuttavia essere capaci di realizzare stati del mondo: gli organi.
 Gli organi sono parti degli esseri viventi,  e sono costituiti a loro volta di parti quali le cellule e tessuti. Gli organi sono caratterizzati da una struttura e da una o più funzioni. La struttura è determinata dall'insieme delle sue parti, cioè dall'insieme delle sue cellule e tessuti; essa è specifica, cioè è diversa da organo a organo, ed è normalmente specializzata su una o più funzioni. La funzione consiste in tutti quei cambiamenti interni, all'interno dell'organo stesso, ed esterni, sia in organi e tessuti prossimi che remoti, - ossia nell'organismo in generalesia nell'ambiente esterno  -  che l'organo produce nel corso della sua normale attività.  
Cosa succede quando il pancreas produce insulina a fronte di un rialzo degli zuccheri nel sangue? In realtà il glucosio, cioè lo zucchero, entra in contatto con alcune popolazioni cellulari specifiche del pancreas, e questo contatto causa una “attivazione metabolica” che porta il pancreas a secernere l’insulina, la quale riporterà la glicemia a livelli accettabili per l’organismo. Si può dire che il contatto del glucosio con le cellule beta causi una sorta di rappresentazione del livello di glucosio nel sangue nel pancreas, e che l’”attivazione metabolica” altro non sia che uno stato motivazionale?Naturalmente no, perché noi non attribuiamo soggettualità all’organo, se non in senso metaforico. Ma, tra le condizioni perché noi ci facciamo questa idea, e cioè che il pancreas sia privo di soggettualità,  c’è quella per cui noi dobbiamo rinvenire qualcosa nell’organo che lo distingue dall’organismo nel suo complesso. Gli organi, infatti, hanno alcune caratteristiche salienti: la persistenza operativa,  la scarsa variabilità di risposta agli stimoli e la netta specializzazione operativa
Anche portando alle estreme conseguenze l’interpreazione funzionalista evocata sopra, non possiamo immaginare che gli organi producano qualche tipo di rappresentazione, anche se completamente dementalizzata, perché la scarsa indeterminabilità della loro azione non permette di afferrare, in essa, un concetto; in altre parole, la stereotipia di funzionamento preclude la possibilità di rintracciare soggettualità nell’organo. Se un organismo si comportasse nello stesso modo di un organo, noi potremmo garantirgli ancora la denominazione di individuo, ma non potremmo assegnargli nessuna abilità soggettuale.
Vi è infatti concetto d’azione solo se posso rinvenire nel comportamento di un individuo una qualche strategia flessibile, una qualche variabilità di ampio respiro del comportamento, così da esperire l’indeterminazione dei singoli atti che portano dallo stato motivazionale a quello finale. Se provo sete, posso risolvere questo problema in vari modi: per es. alzandomi, se sono seduto, e andando in cucina e aprire il frigo e bere. Posso bere acqua o limonata. Posso decidere di rimandare la soddisfazione della sete perché ho qualcosa di più urgente da fare. Insomma, posso mettere in atto tutta una serie di espedienti psico comportamentali che rendono il grado di predicibilità del mio comportamento molto più basso di quello di un organo. L’organo invece si comporta in maniera tendenzialmente routinaria, e risponde tipicamente solo ad un numero limitato di stimoli, tramite un numero limitato di azioni
Naturalmente questo grado di predicibilità, nei soggetti umani,  deve rimanere entro certi limiti, che, in definitiva, sono i limiti a cui il senso comune ci predispone, e che sono di solito sufficienti affinché la cooperazione sociale vada, tendenzialmente, a buon fine nel tempo. Se il grado impredicibilità di un soggetto cresce troppo, infatti, i cooperatori sociali, cioè gli altri esseri umani, non sono più in grado di esercitare l’interazione sociale in maniera efficace con lui (malattia mentale). È vero anche l’opposto; anche quando la predicibilità diventa eccessiva, abbiamo problemi simili (comportamenti stereotipati).

Organi ad accesso volontario
Importante, inoltre, è rilevare la differenza tra organi a cui abbiamo un accesso volontario, e che possiamo usare (come per es. gran pare della muscolatura) e organi a cui non abbiamo accesso. Non diremmo per es. che gli arti denotino finalità in sé, anche se hanno una funzionalità molto variabile, poiché ascriveremmo quella variabilità d’uso al soggetto, non agli arti. Il discrimine qui tra assenza di finalità e finalità è l’uso volontario dell’organo da parte dell’organismo, non la disponibilità funzionale dell’organo stesso. Una mano, di per sé, non esprime nessuna finalità se non come mezzo che il controllo globale dell’organismo esercita sui suoi movimenti. La funzione della mano consiste nel suo uso da parte del soggetto, ed è al soggetto che dobbiamo imputare l’utilizzo di quella funzionalità, non alla mano.
la funzione di un organo volontariamente accessibile è  dunque quella di essere d’uso per le finalità del soggetto? Vedremo più avanti che questo è un modo improprio, anche se operativamente utile, di esprimersi.



Struttura e funzione
Cosa determina il comportamento di un organo? La sua struttura e l’ambiente. La struttura, Il materiale biologico di cui è costituito un organo, nelle sue caratteristiche specifiche, dispone  l’organo all’espletamento di una funzione, cioè l’insieme degli output dell’attività dell’organo descritti in termini di modificazioni biochimiche e meccaniche dell’ambiente circostante in senso ampio.
La Teoria dell'Evluzione per Selezione Naturale ci ricorda che a subire la pressione ambientale, e dunque a subire la selezione differenziale, sono i geni, non gli organi, o gli organismi. Ma d’altro canto, sono proprio i geni a determinare, o ad influire sulla conformazione finale di un organo. Tale conformazione deve perciò avere qualche caratteristica che aumenti o non diminuisca la fitness dell’individuo di cui l’organo è parte per potersi stabilizzare nel tempo. Questa caratteristica si realizza quando la struttura dispone l’organo ad una funzione che, per l’appunto, non diminuisce o aumenta la fitness individuale. Tale selezione però dipende dalla situazione corrente, e da come l’ambiente, sempre cangiante, influisce nel “qui ed ora” sui geni, nella loro aleatoria mutabilità, selezionandoli.  Nulla ci lascia pensare che la funzione “riportare la glicemia a livello ottimale” non sarebbe potuta essere svolta da un organo diverso dal pancreas, o forse da più organi insieme. Evidentemente, dato l’ambiente, la forma pancreas era quella che garantiva maggior adattabilità. La struttura ha perciò autonomia dalla funzione.  Sebbene a noi dunque il rapporto tra struttura e organo appaia intrinseco e necessario, esso, in realtà, non lo è. Ci appare così perché la maggior parte dei nostri organi e tessuti non sono disponibili alla manipolazione volontaria, e tendono a produrre più o meno sempre i medesimi effetti. Non possiamo avere accesso al nostro pancreas, o al nostro fegato. È dubbio che possiamo averne al cervello stesso, e perciò, riteniamo che, in qualche modo, vi debba essere una sorta di schema necessario che leghi l’organo alla sua funzione. Il fatto che la struttura del pancreas lo disponga soltanto a due o tre funzioni (glicemia, digestione ecc.) non vuol dire che queste funzioni siano intrinseche alla struttura del pancreas. Vuol semplicemente dire che la capacità disposizionale del pancreas è limitata a quelle funzioni. Non così, per es., per le mani, o le gambe. La capacità disposizionale delle mani è enorme, ed è per questo che nessuno si sognerebbe di dire che “è intrinseco alla struttura delle mani prendere l’ombrello piuttosto che salutare un amico”. Ma la capacità disposizionale di un organo determina la sua funzione;  tale capacità è data dalla costituzione fisica dell’organo stesso, dalla sua particolare forma biologica. Mentre la funzione ha una natura contingente alla forma biologica dell’organo, la forma biologica ha natura contingente all’ambiente. Il Pancreas produce insulina al fine di abbassare la glicemia. Ma affinché lo possa fare, bisogna che vi sia un organismo fatto in maniera tale da far precipitare nel sangue, tramite il processo digestivo, glucosio. È perfettamente immaginabile un corpo animale che  funzioni senza pancreas, e se la forma biologica pancreas si ritrova in così tanti organismi è perché l’ambiente naturale ha favorito i geni che producono pancreas tramite un processo di selezione differenziale, e non perché vi era una funzione pancreatica che un qualche organo doveva pur istanziare. Ma è ben possibile non solo che altri organi avrebbero potuto svolgere la funzione pancreatica, ma soprattutto che non ci sarebbe stato bisogno affatto di produrre quella funzione. In un mondo senza glicemia eccessiva non ci sarebbero pancreas. La funzione cioè consiste nell’insieme degli output finali che un organo produce entro un dato ambiente; se cambia l’ambiente la funzione o perde di rilevanza, o può addirittura cambiare a parità di organo, come succede nel fenomeno dell’exaptation.
Non vi è un mondo astratto delle funzioni che la struttura d’organo va a popolare con le sue caratteristiche precipue; vi è invece il meccanismo evolutivo che produce tanto le strutture che le funzioni, o, meglio, le funzioni solo in quanto produce le strutture.

Stati finali del mondo
 Mentre l’azione determinata dal concetto conduce a modificazioni del mondo come scopi, che realizzano stai finali, (a loro volta informate dal concetto), l’attività d’organo conduce a modificazioni dello stato del mondo come stati finali del mondo. Detta altrimenti, dato l’organo O, e la risultante di tutte le attività di O come l’insieme x, in termini di modificazioni biomeccaniche del mondo che quell’attività produce, lo SFM di O è identico a x, senza ulteriori specificazioni.
A tal proposito è bene ribadire, nel caso della mano, che la sua funzione non consiste, per esempio, nel prendere oggetti, oppure compiere altri atti di questo tipo. La funzione prensile della mano consiste invece nel produrre quell’insieme di modificazione di stato (tensione delle dita, esercizio di pressione su oggetti, rotazioni, tiramento di tendini ecc.) che dispongono l’organismo, visto nella sua interezza di soggetto, a prendere gli oggetti. La presa di oggetti perciò diventa un atto, cioè parte di un flusso comportamentale finalizzato, solo quando esso è interpretabile alla luce di un concetto d’azione, il quale è da imputare al soggetto, e non all’organo.  Dire “la mia mano prende il bicchiere” ha senso solo se la locuzione è interpretata in termini metaforici; ma è giusto invece sostenere che “uso la mia mano per prendere il bicchiere”? si potrebbe arguire dal fatto che la mia mano altro non è che un’insieme di disposizioni prensili, che tale insieme abbia essenzialmente una funzione mediale: la mano è mezzo per prendere. Ma, se scomponiamo un’azione in atti, in realtà, noi non facciamo altro che rilevare come questi atti corrispondano anch’essi ai medesimi concetti dell’azione che l’azione compiuta. Tutti i movimenti che compio dal portare la mia mano da lungo il fianco dov’era, al bicchiere acquistano un afflato finalistico in forza del medesimo concetto d’azione SETE. La differenza tra essi e lo Scopo è che essi realizzano stati intermedi del mondo, che acquistano la loro intermedietà solo alla luce del concetto dell’azione. Ma, a ben vedere, non sono “Io” che prendo il bicchiere, ma è la mia mano a farlo. Anche quando dico che sono io a farlo, dico qualcosa dal sapore altrettanto metaforico di quando dico che è la mia mano a farlo. Dir così, e prenderlo in maniera letterale, presuppone che vi sia un IO scevro di arti, che usa un arto per fare una cosa che, senza arti, non potrebbe fare. Questa concezione cartesiana del prendere lascia abbastanza perplessi, poiché, per l’appunto, presuppone un IO incorporeo. A questo si può rispondere che in effetti non è questo IO virtualmente privo d’estensione a prendere, ma è l’organismo ad agire prensilità in relazione ad  uno o più oggetti del mondo, e che dal modo in cui questo organismo agisce questa prensilità, si può inferire, secondo quanto detto prima (impredicibilità parziale, indeterminazione e varietà comportamentale) che esso si stia producendo in un concetto d’azione, cioè che quel che sta facendo ha un senso. Quando  prendo il bicchiere, è in realtà il mio organismo che si mobilita, in modo diverso a seconda delle circostanze, attivando una funzionalità massiva, la quale ha come risultato (tra gli altri)anche quello di esercitare prensilità nei confronti del bicchiere. Perciò, a rigori, non si può dire che io usi la mia mano per prendere il bicchiere, perché non vi è un io distinto dal suo organismo costituito in modo tale da permettere una relazione io/corpo di tipo strumentale. Vi è piuttosto un organismo – io che esercita continue modificazioni dello stato del mondo, e lo fa con una complessità tale, con una varietà tale di comportamento da lasciare presupporre un concetto dell’azione di quello che fa, e in modo tale che alcune di queste modificazioni sono avvertite, con maggiore o minore intensità, come espressioni di volizioni interne da parte del soggetto. Io non uso la mia mano, io sono la mia mano nelle sue dinamiche funzionali, le quali sono accompagnate da rappresentazioni, ma soprattutto da rappresentazioni di volizioni che vertono sulla mia mano. Ovviamente lo schema strumentale per parlare degli organi ad accesso volontario è linguisticamente utile, anche se interpretativamente carente.

Organi multidisposizionali
Gli organi  multidisposizionali a controllo volontario acquisiscono la loro strumentalità, con tutte le precisazioni fatte sopra,  per il fatto che la loro attività ha un maggiore potere causale nei confronti degli Stati Finali di un CA. le specificità disposizionali, cioè, in sostanza, la forma biologica degli organi ad accesso volontario, naturalmente, ha anche un’azione di vincolo sull’azione. La forza degli arti, la capacità di pressione, la forma delle ossa, insieme a tutti quegli elementi di rappresentazione del proprio corpo, gli schemi d’azione che la forma del corpo impone ai movimenti finiscono per influire sul concetto d’azione. Uno SO del CA SETE influirà sull’azione se esso consiste nella credenza che l’unica fonte di acqua disponibile è fisicamente irraggiungibile. La revisione di uno stato operativo può condurre alla revisione di tutto il concetto, cioè dell’insieme degli elementi, eretti a sistema, che informa l’azione.
Le funzioni sono  cioè la categorizzazione astratta, operata per induzione sul comportamento d’organo, degli SFM degli organi, che in nessun modo sono pensabili come rappresentazione attribuibile all’organo stesso.
I Concetti dell’azione sono attribuiti, non pensati come effettivamente presenti nelle menti delle altre persone. Ma, essi, sono analizzabili tramite dei semplici schemi astratti, come per l’appunto quelli del concetto dell’azione, senza pretendere che sia l’unico possibile



Finalismo dei concetti
Che ragione avremmo di fare tutte le cose che facciamo giornalmente se non perché ne abbiamo un motivo, o meglio, se non perché vi è qualcosa nella nostra mente che ci permette e, in qualche modo, ci obbliga ad agire così piuttosto che in un'altra maniera?  Perché non ci muoviamo secondo schemi del tutto casuali? D’altro canto spontaneamente revochiamo le abilità di finalizzazione a soggetti il cui stato mentale è compromesso da qualche malattia, come la schizofrenia o l’autismo (o alle persone in stato comatoso). Queste persone sono o troppo o troppo poco prevedibili nella loro mobilità e capacità di realizzazione di scopi (tendendo conto del fatto che lo scopo e gli atti mediali che portano allo scopo sono l’unica cosa che vediamo del concetto dell’azione). Il concetto dell’azione perciò non è un elemento intrinseco alle azioni tale che esse o ce l’hanno, e dunque sono finalizzate, o non ce l’hanno, e dunque non lo sono. Esso è piuttosto un elemento di discrimine soggettivo, contingente, legato ai contesti in cui l’azione si svolge e soprattutto all’interazione sociale entro la quale si svolge e viene osservata o auto osservata.
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In un celebre esperimento gli sperimentatori attaccano al cranio dei soggetti, a loro insaputa, degli stimolatori magnetici. Dopodiché chiedono a tali soggetti di alzare il dito destro o sinistro, a loro piacimento, davanti a certi stimoli. Gli sperimentatori poi mettono in moto gli stimolatori, causando, nel corso dell’esperimento, l’alzata del dito destro o sinistro per le vie neurali. I soggetti non si accorgono di nulla, e, una volto che viene richiesto loro di farlo, essi cominciano a esprimere delle spiegazioni sul perché avevano alzato un dito piuttosto che l’altro. L’alzata del dito in questo caso non faceva altro che stimolare una mera funzione d’organo, causando un SMF, ma i soggetti percepirono quel gesto come se vi fosse un SF, e cioè un concetto d’azione. Essi perciò attribuirono a loro stessi la paternità di quel gesto, e contemporaneamente a ciò, ne modellarono una spiegazione causale, cioè ne diedero un concetto d’azione.
Se sostituissimo  lo stimolo magnetico applicato al cranio con lo stimolo che il normale ambiente circostante invia al cervello,  percezioni ecc. cosa avremmo?
Se tutti questi imput fossero in grado, da se, di causare una risposta comportamentale del corpo, mediata dal sistema nervoso in maniera totalmente arappresentazionale, tale da produrre una variabilità sufficiente del comportamento stesso, avremmo comunque un concetto d’azione.  Perché esso stesso farebbe comunque parte del corredo comportamentale del sistema.  La spiegazione, cioè l’evidenziazione auto o etero attributiva del concetto d’azione, è parte stesso dell’output comportamentale; essa è prodotta spontaneamente, o per dirla altrimenti, la nostra mente è naturalmente disposta a produrla. E non solo, essa è parte anche degli imput verso il comportamento, giacché i concetti d’azione fungono da base per la modulazione del comportamento di risposta nei confronti dell’altro in un’interazione sociale. Essi però sono solo inferibili, hanno carattere empirico e non “trascendentale”. Non sono sottoponibili ad un test univoco di verità, e non iniziano in uno stadio preciso del comportamento; possono dare adito a diatribe, anche interiori, e la loro indagine può concludersi con un nulla di fatto.

Funzione  e fine
Non vi è cioè soluzione di continuità tra funzionalità e finalità. Ma tra le due vi è una stretta relazione. È infatti l’insieme di tutte le funzioni d’organo che rende al soggetto il suo afflato finalistico.
Il funzionamento globale dell’organismo, cioè la contemporanea attività di organi non accessibili e (più o meno) accessibili conferisce all’organismo stesso quella fluidità dei movimenti e quell’uso competente dell’ambiente che ci fa riconoscere in esso l’attività finalizzata.
Ma esiste la finalità, indipendentemente dal comportamento fluido, ecologicamente situato?
Oppure non sarebbe piuttosto meglio dire che ciò che chiamiamo attività finalizzata altro non è che un’attività funzionale ad alta complessità?
Se guardiamo con gli occhi del senso comune, e parliamo con la sua bocca, allora viene da dire che se io prendo un bicchiere e bevo, lo faccio perché volevo bere, cioè volevo prendere il bicchiere al fine di bere e dunque al fine di soddisfare la mia sete. Ma, vista da un altro versante, cioè quello dal quale guardiamo ai nostri organi, ciò che noi vediamo è un individuo della specie umana che ha sviluppato una disposizione globale (cioè ascrivibile al funzionamento dell’intero organismo) di reiterazione del gesto di bere, e che questa disposizione – imputabile alla struttura biologica di cui è composto (soprattutto quella dell’organo cerebrale) – ha permesso, essendo propria della specie, agli individui di questa specie di stabilizzare quella forma biologica specifica, per l’appunto, utilizzando i benefici che il rifornirsi saltuariamente di liquidi comporta.
Vi è una mole enorme di attività che svolgiamo; tra queste ve ne sono di adattive e di antiadattive, di dannose e di edificanti. Ma il fatto che ve ne siano di dannose non comporta che l’attività finalizzata non possa essersi evoluta come un funzionamento globale dell’organismo;  poiché l’importante, affinché una funzione si stabilizzi nel tempo, è che non incida troppo negativamente sulla fitness, anche quando non la migliora. Ma è probabile che nel complesso la migliori, eccome! Ciò detto, possiamo azzardare l’ipotesi che sia impossibile distinguere in maniera troppo netta tra funzione e fine, ma che, alla malaparata, vi siano ragioni per ricondurre l’attività finalizzata nell’ambito della attività funzionale piuttosto che il contrario. Sottolineiamo però che è davvero difficile pensare di attribuire finalità ad ogni singolo organo, anche quando volontariamente o sensibilmente accessibile. Si dirà che questo non è impossibile in linea di principio ma solo in via empirica; il che è giusto, a patto che si precisi che la via empirica tramite la quale assegniamo valore finalistico ad un’azione non è improntata al  riconoscimento in quell’azione di un segno evidente della finalità. Quando noi rinveniamo in un comportamento variabilità, indeterminabilità e parziale impredicibilità non riconosciamo un segno del finalismo, bensì veniamo pervasi da un senso di finalismo. Se approfondiamo la questione, e cerchiamo di determinare ulteriormente le caratteristiche di questo senso, non troviamo nient’altro che il funzionamento globale dell’organismo, nella sua copiosa multidisposizionalità.

martedì 21 ottobre 2014

Privatizziamo la scuola, sia quella pubblica che quella cattolica


Oggi vi sono due tipi di scuola:
La semicattolica, che è formalmente di proprietà dello Stato, ma che è informalmente proprietà della Chiesa Cattolica, e la cosiddetta Scuola Cattolica, che è anche formalmente proprietà della Chiesa Cattolica

Nella prima viene praticato l'indottrinamento minor, nelle seconde quello Maior. al quale i nostri figli, senza eccezione, sono costretti a sottostare per l'intero arco di studi.

I nostri laicisti, che purtroppo hanno una visione talmente corta delle cose da essere rimati chiusi negli anni '70 anche se di anni ne hanno sedici, ritengono che il problema non sia il duopolio in sè, ma il fatto lo Stato finanzi tutti e due i termini del duopolio e non uno solo, cioè che non costituisca un ferreo monopolio, non comprendendo che un duopolio vero (cioè non natursale) è semplicemente un monopolio a due.

Il solito vecchio errore dei laicisti, che essendo in maggior parte "di sinistra", pensano che per mantenere in vita una qualche libertà, o diritto*, ci sia bisogno di un ente statale apposito che certifichi che quel diritto è stato svolto. Essi non pensano che quel diritto potrebbe venir messo in atto dal cittadino stesso, senza bisogno di un numero eccessivo di azioni da parte dello Stato.

Insomma i nostri laicisti (e badate che io sono uno di loro, perchè sono laicista, e anche di sinistra, anche se in senso diverso) son per la "scuola pubblica". Essa, in quanto pubblica, mantiene la laicità.

Purtroppo questo è falso. La nostra scuola è invece piena di violazioni della laicità, a cominciare dall'obbligo del crocifisso alle pareti, alle continue notizie di preghiere, salmi e esercizio degli astrusi e bizzarri riti cattolici che vengono perpetrati ovunque ormai. Immaginate dunque cosa può accadere in regioni come la Lombardia e il Veneto, govrnate dai fondamentalisti cristiani della Lega.

Immaginate cosa potrebbe accadere se il nostro Ku Klux Klan verde pisello dovesse assumere il governo nazionale. Che ne sarebbe dei figli dei laicisti? Forzati all'indottrinamento, ammoniti, segregati dal prete obbligatorio.

Vogliamo parlare dell'immonda ora (ore al plurale se parliamo di infanti) di religione? No, perchè non vogliamo rovinarci la giornata

Parliamo ora con i non laicisti della destra.

Ammettiamo una colpa: è vero, per molto tempo l'università italiana è stata dominata, o comunque molto influenzata (credo però senza violenza alcuna) dal marxismo (ma prima dall'Idealismo di Croce e Gentile, che "fece fuori" molti nomi illustri ed impedì tanti sbocchi diversi della filosofia). Credo anche proprio alla parentela di questo con l'idealismo che evidentemente si confà alla mentalità italiana.

Tutti questi universitari poi si devono essere riversati nelle scuole pubbliche, e devono aver fanno non pochi danni con le loro assurde concezioni storico materialste. Un indottrinamento non so dire, diciamo un indottrinamento informale; certo duqnue un pensiero unico si deve essere sviluppato.

E' quest'oggi tale influenza domata? Io suppongo di no. Quelle universitarie sono elite che vivono in maniera distaccata dal resto della popolazione. Io ricordo i katanga dei collettivi che ci sputavano in testa nelle ore di buco per deriderci del fatto della grave colpa di classe di sostenere l'allora Pds. Non so se è così ovunque, ma mi ricordo di un amico bocconiano che diceva che a economia politica alla Bocconi (!) sono tutti marxisti.

Allora abbiamo un monopolio a due termini della scuola: un termine è semicattolico e marxisteggiante e l'altro è solo cattolico.

Non mi si venga a dire che due è meglio di uno. No! E' un duopolio perciò scegliere uno o l'altro non è una vera scelta, ma la parodia di una scelta.

Allora vengo al punto:
Privatizziamo le scuole.
1) Liberalizziamo quasi completamente il settore in modo tale che chiunque possa entrarci e fare una scuola secondo il metodo che vuole
2) portiamo le materie obbligatorie al minimo possibile in modo tale che tutte le scuole possano insegnare ciò che voglioni senza limiti di orario
3) Autonomizziamo le scuole pubbliche e mettiamo nei consigli di istituto o quel che è talmente tanti elementi locali (associazioni, genitori singoli, banche, fondazioni ecc.) da renderle semiprivate
4) istituiamo il sistema di voucher univesale
5) liberalizziamo la professione dell'insegnante: ognuo assume chi vuole e lo licenzia quando vuole






* libertà e diritti in senso positivo/affermativo